Cenni critici

Geza de Vegh missiva del 1957 in Tinton Falls. New Jersey. Eatontown U.S.A.

At various times I have had the occasion to see the oil and water colors and have particularly admired the expressive sketches of Vincenzo La Mantea. I can sincerely déclassé that the quality and artistic talent of this youth is indeed extra ordinary. Although his technical ability is limited, his work vibrates with sentiment and expression. Knowing his intelligence I believe that no scholastic difficulty may interfere with his achieving his goal. Geza de Vegh

(Varie volte ho avuto occasione di vedere gli oli e gli acquerelli e di aver particolarmente ammirato gli schizzi espressivi di Vincenzo La Mantea. Posso sinceramente dichiarare che le qualità artistiche e il talento di questo giovane è senza dubbio straordinaria. Benché la sua abilità tecnica sia limitata, la sua opera vibra con sentimento ed espressione. Conoscendo la sua intelligenza credo che nessuna difficoltà scolastica possa interferire col raggiungimento de suo scopo.)

Alberto Consarino su Gazzetta del Sud del 30 gennaio 1960

[...] Un discorso a parte dobbiamo fare per il pittore La Mantea, il quale presenta una quadro astratto: “Canto popolare Calabro”. Sorprende la forza che emana da qust’opera. Si può discutere imponendosi ai critici più arcigni, ma dobbiamo pur dire obiettivamente che La Mantea ci persuade soprattutto per il profondo significato coloristico e la perfezione stilistica che egli dà al suo tema [...]. Alberto Consarino

Geza De Vegh, critico d’arte – New York, per la personale del 16 dicembre 1962 al Cine Club di Vibo Valentia

[...] Una conoscenza approfondita del colore, un disegno inimitabile, una tecnica sorprendente [...]. Geza De Vegh

Virgilio Guzzi su Tempo del 21 luglio 1964

[...] Così la commissione del Premio “Villa S. Giovanni” presieduta quest’anno da Mino Maccari e composta da Guido Ballo, Carlo Barbieri, Alfonso Frangipane, Virgilio Guzzi ed Enrico Paulucci, (Segretario Ugo Ortona – ha potuto assegnare senza alcuna riserva, anzi con piena soddisfazione, uno dei premi in palio al pittore Vincenzo La Mantea. Quel suo quadro Le case del mio paese, per finezza ed evocatività di valori tonali, ariosità e scelta raffinata di colori, segnala un temperamento non immemore della lezione di De Pisis [...]. Virgilio Guzzi

Piero Girace su Roma, Napoli del 31 luglio 1964

[...] Attirano la mia attenzione “Le case del mio paese” di Vincenzo La Mantea, di un impressionismo costruito e delicato, al quale avrei dato il primo premio [...]. Piero Girace

Domenico Teti per la personale del 9 ottobre 1965 al Circolo Unione – Palazzo Fazzari di Catanzaro

Sta riscuotendo un particolare, vivissimo successo la mostra del pittore Vincenzo La Mantea. Numeroso pubblico affolla seralmente la galleria d’arte del Circolo Unione e si congratula con il giovane e già tanto apprezzato pittore di terra nostra. Domenico Teti

Raffaele Basso per la personale del 24 giugno 1967 a Il Pozzo di Catanzaro di (a cura de “L’Opinione”)

E’ un discepolo di Andrea Cefaly; per lunghi anni ha vissuto nella sua orbita, poi ha reagito virando, temporaneamente, nell’arte astratta (ricordiamo una sua personale al Circolo Unione, due anni fa). Col ritorno all’impressionismo egli ha maturato la sua esperienza e, a me pare, che abbia trovato, in particolare nel paesaggio, la sua strada. Questo è disegno e colore; il disegno, ben visibile, generalmente in carboncino, talora in gesso, assume valore nell’architettura del quadro, mentre il colore crea l’atmosfera. La sua intonazione prevalente è di toni sommessi, dal grigio all’azzurrino, ai verdi chiari, al lilla: il colore è sempre puro e disposto in larghe chiazze intercalate da zone chiare che danno respiro, senza che venga meno il valore tonale della superficie. Raramente Lamantea assume tono espressionistici ma anche allora egli conserva freschezza e sincerità. Sono toni che permettono di avanzare un giudizio favorevole sull’arte di Vincenzo Lamantea. Raffaele Basso

Mario Lepore su Il giornale di Pavia del 26 febbraio 1969

[...] La sua è una veloce pittura nervosa abbreviata con qualche eco segnica e gestuale, che ha dell’impressionistico e dell’espressionistico insieme, un colore fresco e luminoso, un tessuto cromatico molto mosso, con delle tracce informali. Questi modi corrispondono a una grande vivacità immaginativa e a un forte slancio lirico e trasfiguratore davanti alla natura cui si ispira direttamente [...]. Mario Lepore

Mario Perazzi su Il Corriere della Sera del 9 marzo 1969

La Mantea autodidatta formatosi in America, dà vita a composizioni di notevole efficacia espressiva. Si notano echi di De Pisis e di Kokoshka, tuttavia ben rielaborati e assimilati.
Paesaggi nati sulla spinta di un autentico estro lirico, freschi e vitali. Mario Perazzi

Mario Lepore su Culture e Informazione – Milano del 26 febbraio 1969

I fatti e i volti dell’arte. La settimana a Milano. Sergio Barsanti e Vincenzo La Mantea sono due pittori che espongono per la prima volta a Milano e li presenta la galleria Pegaso, in via Brera, 7. … La Mantea è un calabrese formatosi in America a Nuova York, auto didatticamente. LA sua è una veloce pittura nervosa, abbreviata, con qualche eco segnica e gestuale, che ha dell’impressionistico e dell’espressionistico insieme, un colore fresco e luminoso, un tessuto cromatico molto mosso con delle tracce informali. Questi modi corrispondono a una grande vivacità immaginativa e a un forte slancio lirico e trasfiguratore davanti alla natura cui si ispira direttamente. Mario Lepore

Pino Zanchi su Il Giornale di Pavia 9 marzo 1969

[...] Presentato da Mario Lepore, La Mantea è un “chiarista” di ottime doti che interpreta sia i paesaggi che gli “interni” con gustosa leggerezza e sfumato colore ravvivando nel contempo la festosità dei soggetti che acquistano sapore e toni sempre in linea con la fantasia gentile dell’autore. Da segnalare, in particolar modo i ritratti di ragazzo, di giovane donna e di bambina per la forza intima che La Mantea vi pone, riuscendo a farne dei veri e propri “personaggi” [...]. Pino Zanchi

Antonio Palumbo per il primo premio Scogliera d’argento – medaglia d’oro del 15 marzo 1975 a Copanello di Stalettì (Catanzaro) recensione su L’Opinione pag. 4

[...] il prof. Antonio Palumbo (segretario) ha, a conclusione dei suoi lavori, assegnato i seguenti riconoscimenti: medaglia d’oro: Andrea Cefaly, Bruno De Cerce, Vincenzo La Mantea. Antonio Palumbo

IL CRISTO DELLA CROCE “PRIMO GIRASOLE”

Prefazione dello storico passionista P. Carmelo Amedeo Naselli in occasione della Mostra Regionale d’Arte Sacra: “La Passione di Cristo nel Vangelo e nella vita dell’uomo” Missionari Passionisti della Parrocchia di S. Giuseppe. Palazzo della provincia. Città di Catanzaro dal 14 aprile – 24 aprile 1973

Finalmente abbiamo potuto “snidare”dal suo forte di Girifalco Vincenzo La Mantea. Con l’amico P. Angelo Del Vecchio abbiamo risalito in un pomeriggio di settembre le pendici collinari che legano le propaggini di Monte Covello, toccando Caraffa e Cortale, sotto grandi ombrelli di alberi secolari, in mezzo ad una fertile campagna con falsi altipiani disseminati di vigneti, frutteti, oliveti.

Qui c’è l’eremo di Andrea Cefaly il “solitario di Cortale”, patriarca dei pittori calabresi, che fu maestro di La Mantea; qui c’è pure, come dicevamo, la roccaforte di La Mantea, la cui giovinezza non è anagrafica (è nato nel 1928), ma, diremmo, carismatica, perché genuinamente francescana.

Ci troviamo di fronte un uomo sereno, immerso in una gioia che è dono e conquista allo stesso tempo, perché vissuta e offerta con l’aroma dell’umiltà. A ciò è arrivato dopo un lungo e avventuroso cammino, che l’ha portato prima a New York e poi a Milano, accanto a maestri di alta levatura, quali George Grosz, Salvadori e Moro, oltre il Cefaly il cui grande esempio umano, morale e artistico ha più profondamente influito nella sua vita e nella sua arte.

Una diecina di mostre personali e di premi conseguiti lo hanno avvicinato ad esigenti intenditori, critici d’arte e gente del popolo del Sud e Nord Italia, restando sempre l’umile e “ricco” Vincenzo, che “fiuta” la bellezza ovunque e respira il divino in ogni cosa, che viene offerta dalla e nella natura all’uomo perché sia più uomo, “a Dio nepote”.

Così quel pomeriggio quasi autunnale abbiamo potuto accostarci alla sua arte, passando come in una celere moviola i quadri della sua ultima fresca stagione, quella dei “girasoli”. Ce li ha nel sottostante giardino. Sono cresciuti tanto alti e imponenti da spingere quasi il davanzale del bel terrazzino, quasi volessero essere i primi piani di una natura rigogliosa, che si perde su un fino alla montagna, sotto gli occhi emozionati del pittore. È finito che questi girasoli hanno segnato una tappa nuova nel geniale itinerario pittorico di ricerca e di fascinosa contemplazione di La Mantea.

Con essi egli ha istituito in questi mesi estivi una singolare comunione di vita, illuminante e ispirante, sostenendo in essi e nella natura “parente” più che un soggetto da dipingere una “persona viva”, da cui sprigiona un possente messaggio di vita.

I girasoli hanno una bellezza e una forza atte a provocare un artista al punto in cui fiore e frutto, si scoprono e si offrono “umani”, come fossero persona viva, e regale per giunta. Sono strutturati anzi regalmente, perché hanno una testa che è un diadema.

Il capo cinto di muscolosa corona, sfilante in petali lunghi e penduli, e chino, sempre chino, in atto di ossequio, di obbedienza e di amore. Vuol dire proprio che sono il fiore e il frutto dell’oblazione e della redenzione nella natura e nell’umanità.

È qui che La Mantea ha scoperto la suggestiva analogia provocatoria del girasole con il Cristo della Croce, come “satellite” del Padre, fiore di originaria bellezza e frutto di quell’assurdo albero, la Croce , che Dio Padre ha piantato in terra, perché divenisse terra di riscatto e di amore riconquistato. E Cristo ha chinato la testa in atto di obbedienza e di amore come un girasole, coronato di spine, i cui petali grondano sangue.

Cristo “primo girasole”.

È così che il quadro di La Mantea ci ha colpiti e ci ha ammutoliti al primo impatto col suo prepotente e dolce messaggio. Il Cristo in Croce con la testa china in una sovrumana espressione di serenità e di regale compostezza nel sacrificio del suo sangue, è collocato in una ricca gamma di colori e tonalità maestre, ove una sequenza di travolgenti girasoli traducono la violenza umana, che dalla terra raggiunge la Croce.

L’interpretazione simbolistica di La Mantea ha veramente qualcosa di nuovo e di grandioso. Il suo quadro raccoglie e armonizza insieme concetti teologici e sentimenti umani sublimi, che si fondono in una meditazione e in un godimento, propri del mistero che essi intendono proporre e celebrare.

Godimento, perché il Cristo pende dalla Croce fra tanti girasoli penduli come in giardino esplodente di luci e di colori. Un Crocifisso, perciò, che “fiorisce” in un giardino come chi, dopo aver liberato l’uomo, ne riconsacra ora la natura, che è il suo mondo e la sua vita.

È questa la vocazione di La Mantea, che nella sua innata sintonia con la natura, gode di un dono inestimabile: la percezione intima della religiosità della medesima. Qui proprio c’è l’autenticità di questo pittore e il segreto del perché del Cristo “primo girasole”. Padre CARMELO Amedeo NASELLI

Mario Lepore per la personale del 6 novembre 1971 alla Galleria d’Arte Cernaia di Milano

Il pittore Vincenzo La Mantea ordina la sua personale a Milano dopo aver allestito con successo alcune mostre individuali in città della sua Calabria e essersi distinto in alcune importanti collettive cui ha partecipato non soltanto in Italia ma anche all’estero. Lamantea vive e lavora a Girifalco un paese che ha un araldico nome da antica venatoria, in provincia di Catanzaro. È un isolato in una regione purtroppo per tanti versi ancora isolata e depressa, poco nota alla maggioranza degli italiani, anche se bellissima e nobilissima per classiche elleniche tradizioni. Ma è singolare come questo artista non sia affatto “provinciale” anche se per usare una locuzione corrente “è tagliato fuori dal giro”, e come, alla resa dei conti risulti viceversa vivamente e originalmente inserito nella cultura attuale, e sia partecipe con spontanea e irruenta capacità creativa di una visione pittorica e di concetti estetici pienamente moderni. È singolare, come dicevo prima, ma le vicende della sua vita lo spiegano esaurientemente. La sua è una storia molto romantica, che si presterebbe a fare di La Mantea quello che si suole dire giornalisticamente “un caso”. Qui però l’accenneremo asciuttamente solo per la comprensione del lettore.

Vincenzo La Mantea, che è nato nel 1928 fu costretto in giovanissima età ad emigrare negli Stati Uniti, a Nuova York. Il giovanottino cominciò a frequentare i musei della metropoli americana, specie il Guggenheim. Ebbe così sottocchio un mare di pittura, e poté studiarsi tutta l’arte del mondo: antica e moderna nelle più diverse espressioni. Al Guggenheim appunto si incontrò fortuitamente con due noti pittori Mark Tobby e Renato Birolli dei quali diventò amico. Non fu certo un contatto inutile soprattutto dal punto di vista delle idee, delle teorie attuali, ché La Mantea, temperamento schietto di autodidatta, non poteva stare nella scia di quei due, non poteva prenderli per maestri: doveva formarsi da sé un metodo di apprendimento, trovare provando e riprovando quel che gli conveniva e rispondeva al suo sentimento, alle sue possibilità creative e tecniche, al suo gusto.

Ma infine ecco che l’emigrante ritorna in patria: per un nuovo lungo e imprevedibile cammino.

La pittura di La Mantea ho potuto conoscerla in larga parte, almeno quella degli ultimi anni. So che ha avuto un periodo non figurativo ma saggi di quel momento non ne ho visti: ho visto piuttosto gli sviluppi successivi, di recupero dell’immagine. Probabilmente i dipinti esposti, essendo stati scelti da chi scrive con un concetto non antologico ma volendo presentare il pittore con una fisionomia unitaria rispetto ai tempi più recenti non lasciano conoscere diversi e interessati aspetti della sua passata ricerca che meriterebbero di essere apprezzati. Ma questa mostra ha dei limiti come spazio e cronologia. Suppongo però che senza alcun dubbio qui appaia un genuino artista, nativamente dotato, con una individualità notevole e una padronanza altrettanto notevole dei mezzi espressivi, un “piglio” franco e ardito nell’affrontare il motivo pittorico costantemente scelto sul vero e costantemente trasfigurato con foga in un fatto lirico e visionario.

La Mantea non mira a descrivere il brano di natura cui si ispira ma a esprimere la propria emozione davanti a esso nella maniera più immediata possibile. Perciò ha una pittura veloce, abbreviativa, che talvolta rasenta una sorta di stenografia, fatta di segni e accenni di colore. Il suo pennello si muove rapidissimo sulla superficie del supporto adottato – tela o cartone o legno che sia – tracciando una immagine che contiene solo l’essenziale del dato di natura da cui parte ed è caricata dello scatto fantastico e sentimentale suscitato dal tema nel pittore. Pure essendo in definitiva di provenienza impressionistica questo modo di dipingere diventa sostanzialmente espressionistico. L’elemento segnico vi ha gran parte, e anche quello gestuale. Ma non mai vanamente presi in sé, astrattamente, in senso non figurativo. Viceversa La Mantea vuole significare, vuole comunicare un contenuto capitato alle sorgenti della emozione, intrecciare il colloquio tanto con la natura quanto col riguardante. Il suo alfabeto, cioè il tracciato della pennellata, è estremamente vario e spesso persino capriccioso: arabeschi, ellissi, una sorta di “virgolato”, iterazioni di tocchi, di linee diritte e brevi, di chiazze cromatiche, sfocature e grumi entrano nel suo variato e intonato tessuto pittorico, sempre cantante nella cromia che si addensa e dirada a seconda delle esigenze. Può dare a volte la impressione di un tumultuante intreccio gratuitamente irregolare pur nel suo bel colore, con non pochi echi informali, ma a una lettura giusta, nella prospettiva giusta, tutto si ordina, si colloca esattamente: gli elementi del dipinto si rivelano di colpo e parlano eloquentemente. C’è in questa pittura di La Mantea qualcosa che ricorda De Pisis e qualcosa che ricorda Kokoschka, né resta ignorata tutta una serie di esperienze moderne e contemporanee. Ma i contributi appaiono assimilati perciò legittimante fatti propri e rifusi dall’artista in un linguaggio personale, efficace, genuino attraverso il quale l’immaginazione e lo slancio lirico dell’artista si palesano e creano significanti e fermentanti interpretazioni di quella realtà cui La Mantea si ispira. Mario Lepore

Giovanni Barbieri per la personale del 13-23 maggio 1969 a Il Pozzo CZ

Superata l’esaltazione del “sembiante naturale” e a seguito delle più accorte speculazioni informali assistiamo oggi infine al recupero della figura umana, o delle cose, in dimensioni più consone alla cultura moderna.

La ricomparsa delle figure non significa però un ritorno alla vieta tradizione delle concezioni classiche; ma un nuovo parametro suggerito dalla premesse d’ordine fenomenologico-esistenziale.

Vincenzo La Mantea si impegna su questa linea di ricerca per dimostrare che la pittura non si esaurisce nell’ovvia conclusione di una esperienza, ma è essa stessa un’esperienza in continuo divenire, che si riferisce al tempo presente soltanto nell’atto creativo, nel fare dell’arte.

Egli identifica perciò i valori esistenziali con la materia, nel medium espressivo con il gesto, col segno. Sente l’urgenza di abbandonare le scorie del “facile riconoscibile”, lascia dietro di sé anche le testimonianze di una vuota spazialità convenzionale per imprigionare sulle superfici segni “generatori” in cui le forma assumano significanze problematiche.

La strutturazione grafica del La Mantea si definisce su uno schermo plastico a due dimensioni – senza profondità apparente – per cui sviluppa un ritmo continuo ma ineguale nel tempo: una dimensione temporale dove il sottostrato metafisico della pittura tonale si concreta in luminose presenze cromatiche.

Perciò i suoi segni non si rincorrono secondo uno schema regolare, ma si accentuano o si dilatano ciascuno proponendo risonanze coloristiche: le immagini risultano su mosaici scompaginati da una mano invisibile che accelera o sollecita i momenti dell’esperienza visiva.

Il linguaggio pittorico del La Mantea si avvale quindi di un lessico il cui significato è sempre l’evocazione di uno spazio-tempo proiettato su una superficie colorata, la sua situazione di fatto è qualità materica si manifestano nella dimensione, nella diversa frequenza, nell’irregolarità degli stimoli grafici: è un alfabeto pittorico personale, gestuale, che non mira tanto ad enunciare un soggetto quanto a “significare se stesso”. Un cifrario magico che si rifà anche alla musica e alla poesia per richiedere alla lettura patterns ottici intonati alle modalità percettive della psicologia gestaltica. Giovanni Barbieri

PREFAZIONE di Ugo Ortona per la personali LAMantea presso la Galleria Mattia Preti di Catanzaro dall’11 novembre al 20 novembre 1976

Caro La Mantea

Non ricordo più quanti anni ti conosco e da anni di conseguenza seguo la tua arte: ecco perché non posso rispondere con una ricusazione al tuo cortese invito a scrivere la presentazione alla tua Nuova mostra personale, ospitata dalla “Galleria Mattia Preti”.

Certo di mostre se ne fanno molte: anzi potremmo dire di troppe e le Gallerie d’Arte raramente danno il buon senso ed il coraggio di fare una doverosa ed accurata selezione. Tu, Caro La Mantea, questa selezione la puoi e devi fare tra le tante opere che hai prodotto: e sono, perciò, sicuro che i dipinti esposti saranno il vero risultato del tuo quotidiano ed appassionato lavoro, che hai sempre prodotto e che, come ho già detto, ho sempre cercato di seguire. Abbiamo tante volte discusso su quei valori eterni della pittura, che furono e saranno il pane quotidiano del nutrimento di ogni artista. Vi è la grande madre natura con tutte le sue bellezze più o meno nascoste a cui guardare; ed a queste segrete bellezze tu ti sei giustamente rivolto giorno dopo giorno e con infinito amore.

Non ti sei lasciato plagiare dalle solite e facili mode, ed hai, invece, imboccato la via difficile della ricerca atmosferica e di quella sottile e quasi impalpabile poesia del colore che si respira soltanto esaminando e studiando il “vero”. Ecco perché il tuo paesaggio ha un proprio linguaggio; ecco perché le tue nature morte si articolano in brevi toni coloristici; ecco perché le tue figure sono costruite e vissute.

Certo, caro La Mantea, il cammino dell’arte è lungo e pieno di difficoltà: te lo dice l’amico che ha percorso la lunga strada senza guardare intorno mentre si alternavano le mode e le acrobazie più spettacolari.

Tu il cammino giusto lo hai intrapreso ed io sono certo che lo percorrerai sino in fondo ed è l’augurio che formulo in occasione di questa tua nuova personale.
Novembre 1976 Ugo Ortona

Oliviero Pennecchi per la personale del 6 novembre 1971 alla Galleria d’Arte Cernaia di Milano

Dopo aver girato mezzo mondo Vincenzo La Mantea è ritornato intimidito al suo paese natale e da anni ha scelto come cannocchiale della sua cronaca pittorica il vano di una finestra dalla quale si può intravvedere assieme ad uno spiraglio di cielo tutto quello che fuori succede col mutare delle stagioni.

Che il calendario non dia requie alla sua ispirazione ed ai mezzi cromatici dei quali si serve mi sembra qui ampiamente documentato. Dalla sua stupefacente guardiola questo poeta-filosofo attende con una pazienza da certosino il mutare di ogni condizione d’ombra e di luce e registra con la diligenza del calligrafo ogni più sottile emozione poetica.

Come faccia a dipingere tutta quella materia rimane un mistero. Eppure i suoi flash sono dotati di una luminosità, di una freschezza, di una immediatezza che li fa dissimili l’uno dall’altro. Perché col colore, è la luce che gioca festosa nelle tele di La Mantea una luce tutta dissociata nelle sue componenti prismatiche e che attraverso un complicatissimo sistema di filtri getta sulle cose, che sono quasi sempre le stesse cose, un motivo sempre di squisita novità.

Per uno che trova subito facile la lettura di La Mantea direi però di andare cauto e consiglierei un procedere lento sul testo di questa pittura. Ogni quadro nasconde infatti una sottigliezza gioiosa da scoprire, un particolare che finisce per rendere unitario ciò che prima sembrava disperso in mille rivoli dissociati. Qualche volta sul vano della finestra compare qualcuno. Allora il segno grafico incide sul paesaggio lontano, ma senza virulenza e la struttura pur acquistando uno insperato vigore assorbe dal di fuori luci ed ombre, ombre e luci che piovono sul volto del personaggio ne pervadono le spoglie per riassorbirlo nella atmosfera terrestre che lo circonda. In questo senso oserei dire che non c’è dramma nei personaggi di La Mantea. La loro apparizione è semmai un semplice pretesto biologico per dare più consistenza all’atmosfera sospesa di un sogno. Anche quando dietro alla figura la finestra si chiude la stanza non diventa mai un involucro soffocante e si continua a respirare un profumo di fiori ancora freschi. Possibile che a Girifalco, il paese di La Mantea, non ci sia posto per un pizzico di tragedia? Possibile che la neve che oramai incrudelisce anche nel sud e soffoca le contrade interamente fin sopra i tetti a Girifalco si stenda a mo’ di manto di velluto color cremisi appena riconoscibile agli esperti di fotografia metereologica? “Questa è neve!” Dissi un giorno a La Mantea davanti a un suo quadro ed egli mi ricompensò con uno sguardo pieno di riconoscenza infinta? Come a dire che avevo scoperto qualcosa su cui dovevamo entrambi mantenere il segreto. Ora vorrei consigliare al visitatore di non dar tregua alla sua curiosità, diluendo la sua attenzione anche ai fogli che per ragioni di spazio ho dovuto raccogliere in semplici cartelle. La prolificità di La Mantea mi sembra infatti tutta da godere. Oliviero Pennecchi

Luigi Bianco sulla rivista Harta bimestrale di interazione di dinamiche culturali - Dicembre 1994-gennaio 1995 n. 26 pag. 22, 23, 24

Viaggio alla riscoperta dei pittori. La Mantea: il parigino di Girifalco (via New York).

Tra impressionismo ed espressionismo, tra gestualità e lirismo.

I suoi occhi prendono sempre la luce. Con gentilezza, e amore.

Vincenzo La Mantea è un uomo educato, è un uomo sempre perso nella felicità dei colori e della pittura.

Pittore pittore lascia andare la sua mano e i suoi occhi quando la luce e l’armonia lo guidano all’opera. In pratica, ogni giorno. Credo che abbia “immagazzinato” più di ottomila opere: opere sconosciute e conservate con partecipazione paterna nella casa-studio di Girifalco (un paese fiero della Calabria che guarda dall’alto i due mari).

La Mantea è una sorpresa (soprattutto per me che sono distante dalla pittura pittura).

La sua sensibilità pittorica, il suo equilibrio compositivo, la sua spazialità di luce, il suo piacere di perdersi nel colore, la sua poesia quasi musicale fanno probabilmente di lui il più sensibile pittore calabrese vivente (ha 66 anni).

Anche se non lo sa nessuno. O quasi. Anche se la tua mitezza l’ha tenuto lontano da critica e competizioni di moda e no.

Tuttavia non è mai stato lontano dall’arte, e dalla storia dell’arte. Anche fisicamente.

Prima conosce il genio locale: Andrea Cefaly. Nel 46, il destino duro di tanti calabresi lo porta diciottenne in America. A New York (lui uomo mite accarezzato dalla forma e dai colori morbidi della natura) incontra – in tempo reale – l’espressionismo astratto, con le sue violenze e le sue verità.

Nell’omnicomprensiva casa-studio dove lo sorprendo tra figli già adulti (7 musicisti) La Mantea conferma con parole pacate – ma sentite – le mie impressioni e apre una luce nuova su una vita che è stata anche avventura (un’avventura d’artista).

“Ho iniziato a dipingere da ragazzo per proseguire una tradizione famigliare di pittori di chiesa e artigiani. Frequentavo il liceo artistico ma solo quando (nel 43) ho incontrato Andrea Cefaly mi si è aperto il mondo.

Senza l’incontro con la pittura di Cefaly non avrei capito l’America. L’impatto con Cefaly, che aveva lavorato anche con Casorati, mi ha scioccato, e in America ho capito che la vera arte assomigliava a lui (gli impressionisti, che sento vicino, li ho conosciuti solo in America)”.

In America il giovane La Mantea fa il sarto (un mestiere di sensibilità, di forme e di volumi) e insegue il suo sogno.

Incontra personaggi famosi come De Kooning e Mark Tobey: silenziosamente assimila, si costruisce la dote.

“Tobey mi disse: il quadro è come un orologio, però non ha le ore: nel senso che non ci devono essere ripetizioni. Con questi grandi artisti e la loro arte l’impatto non è stato facile. Poi li ho digeriti tanto è vero che in diverse opere ho affrontato l’espressionismo astratto. Del resto, cos’altro potevo fare a New York in mezzo a quella confusione, a quelle costruzioni, a quei ritmi frenetici? Il paesaggio silenzioso di Girifalco era distante. A New York ho conosciuto anche Renato Birolli (57). Aveva una mostra da Leo Castelli, e abbiamo fatto amicizia. Mi promise che sarebbe venuto a Girifalco: purtroppo l’anno dopo è morto. La mostra da Castelli andava bene ma Birolli non riusciva a vendere le grandi opere in esposizione. Allora con dei pastelli ad olio faceva delle opere su carta e le faceva li per lì”.

A New York il giovane, timido e curioso La Mantea trova anche un maestro dell’espressionismo storico tedesco come George Grosz: ha una scuola di fronte all’Actor’s Studio. Iscriversi è naturale (pur con le solite titubanze).

“Io non ho incontrato il maestro dell’espressionismo ma un accademico. In America Grosz aveva abbandonato il primitivo gesto forte e satirico: faceva l’insegnante classico. Durante le lezioni si sedeva e correggeva secondo le regole della tradizione. Diceva agli allievi più legati agli stimoli dell’arte americana allora in voga: come posso correggere le vostre opere se non tengono conto del modello?

A me personalmente è stato utile per la serietà nello studio e per il modo di guardare il vero: ma non mi ha influenzato.

Le mie influenze vengono da Cézanne e da Sisley (un inglese a Parigi), e poi da Kline con l’action painting. Quando dipingevo sentivo di più un lirismo alla Afro e mi avvolgeva la musica: mi affascinava la musica. A New York ho fatto anche parte di un’orchestra di musica classica ma non ero all’altezza. Poi, forse per prendermi una rivincita, ho fatto studiare musica a tutti i miei sette figli”.

Dopo aver dato anche il suo contributo fisico all’America partecipando anche alla “guerra di Corea (‘52)”, nel ’53 (a 25 anni) La Mantea ritorna a Girifalco carico di pesi e di accumoli.

Magicamente ritrova quella natura incontaminata, quel paesaggio aspro ma anche morbido, quel verde e quei fiori che lo rasserenano e quella luce, quel chiaro di Calabria, che New York gli aveva tolto.

Ma subito non si toglie dagli occhi l’astrattismo.

Il carico di pesi e la violenza poetica dei maestri americani lo “costringono” anche in qualche modo lontano dalla luce della natura che ama (a parte qualche certi ritratti che tengono conto della lezione di Cefaly).

Del resto, l’arte italiana di moda si muoveva su onde informali-astratte e lui, arrivato dall’America, non poteva cadere nel “provincialismo” di paese (in realtà non c’è mai caduto).

“Allora era tutto astratto. Mi ricordo la biennale del ’72 ma ricordo anche che accanto agli astrattisti c’erano due retrospettive di due pittori figurativi : Tosi e Sironi.

Di fronte a Sironi ho capito e mi sono detto: il più astratto è lui, quindi non c’è bisogno di fare una pittura senza soggetto per fare un’opera d’arte”.

Da allora La Mantea si ritira per sempre nel suo paesaggio, nel lirismo dei suoi occhi, nella luce sempre diversa della natura.

Ne escono opere a loro modo straordinarie: un po’ fauves, un po’ espressioniste, un po’ impressioniste, sempre liriche e mai soltanto naturaliste (seppure il soggetto sia quasi sempre lo stesso).

Un finestra. La finestra del suo studio che si apre sul mondo e nella vallata.

Da questa finestra ampia guarda il vissuto del vecchio (e “prestigioso”) manicomio, là a destra incombente: e poi la vallata che scende, prima un po’ furiosa, ma i fiori sono dolci), infine distesa in fondo verso il mare (il mare Jonio), con le fantasie del più antico viaggiatore, Ulisse. La Mantea è appeso a questa finestra: vede sempre gli stessi fiori e gli stessi prati ma ogni volta gli sembrano diversi.

E’ la luce che li fa diversi, come è sempre diversa la sua attesa di poesia, com’é sempre diverso il “taglio” gestuale. Da questa finestra sono nate almeno 2000 opere: fiammeggianti e materiche, morbide e delicate (“il quadro deve essere bello alla maniera classica”!).

E’ spiazzante pensare che un pittore possa agire sempre in modo diverso sullo stesso soggetto. Eppure – avendo io visto almeno 1000 opere – posso confermare che gli occhi e le mani di La Mantea si rinnovano sempre.

Questa finestra è il suo infinito leopardiano (anche se La Mantea sembra un uomo sereno, non ha tormenti debilitanti). Il tempo (sole, acqua, neve, luna) gli porta la diversa luce. Lo spazio al di là della finestra gli porta il movimento, il peso (che varia con la luce). La velocità d’esecuzione, tipica del periodo americano, si è naturalmente attenuata anche se il gesto rimane.

“Ho avuto qualche difficoltà per la lentezza richiesta per dipingere il nuovo paesaggio: ma il mio sentimento è dentro questa natura”.

L’accumulo di tanta materia e tanti materiali (anche dello stesso soggetto), e il silenzio della comunicazione non gli hanno procurato particolari stati d’angoscia.

“Qualche volta mi sento vecchio. Mi sento un po’ sfiduciato per il mio lavoro non riconosciuto, ma come pittore non avverto di essere sorpassato. La freschezza della pennellata è spontanea. Oggi gli occhi sono concettuali, ma io rimango spontaneo, lirico”.

La finestra e il paesaggio non devono però ingannare. La Mantea non è un verduraio calabrese o un naturalista accademico o un ripetitivo esecutore di nature morte.

“Non copio la natura: la trasfiguro. Lo posso fare dopo averla studiata e affrontata con la preghiera. Non sono un pittore descrittivo: il miracolo avviene nella retina”.

Quest’uomo mite che mi racconta con dolcezza un po’ rassegnata il miracolo della sua pittura (e della sua vita), che mi prende quasi per mano e mi incendia gli occhi facendomi sfilare una ad una le sue creature, quest’uomo, che pure è stato in America, non ha avuto occasioni o non ha saputo o voluto sfruttarle.

“A Milano ho cercato Carrà: è stato impossibile aprire un dialogo, era troppo scorbutico. Valsecchi mi apprezzava ma vedeva in me il meridionale. Io dal meridione, dalla mia Calabria, ho preso soltanto la luce.

Tre anni prima che morisse mi voleva vedere Testori per farmi una mostra (sempre a Milano): non ci sono andato. Ho incontrato in Italia non grandi pittori: mi stimavano ma non potevano darmi granché”.

Già. La Mantea camminava su altre strade. Troppo lirico per fermarsi tra i ricercatori di linguaggi. Troppo artista (e troppo esperto di tecniche) per accontentarsi dei pittori di figura.

Forse avrebbe dovuto andare a Parigi: dove i lirici e gli esistenzialisti sono sempre fioriti accanto agli avanguardisti. Chissà.

Le ragioni della vita (l’emigrazione, il pane, una moglie, sette figli, il mestiere, l’insegnamento, la casa grande) l’hanno tenuto lontano dalle occasioni. Poche le sue mostre: una in America, qualcuna a Milano, qualcuna in Calabria, qualche altra sparsa qua e là per l’Italia. Ma le ragioni della vita non gli hanno impedito di eseguire più di ottomila opere. Più ancora di ieri, la sua vita è oggi la pittura. Anche se oggi si diverte a usare le forbici del mestiere per degli equilibrati e vivaci collages di stoffe varie: se in qualche modo spunta Matisse (anche Klee?), il pieno delle sue composizioni rimanda alla pittura, al pieno fiammeggiante o morbido dei colori e del gesto, a quel campo che brilla e canta da tanti anni.

Fare conoscere questo campo fiorito è un dovere morale. Un pittore così può soltanto rendere felice chi si occuperà di lui. Io faccio il mio piccolo dovere di cronista. Altri devono fare molto di più.

Nell’attesa, divento bambino con lui: mi sporco e mi ubriaco coi suoi colori, gioco eterno della poesia. Che la poesia di La Mantea sia in gran parte racchiusa in una finestra, mi conferma poi che il mistero dell’arte rimane ancora imperscrutabile. O scrutabile negli occhi chiari di un pittore di paese (Girifalco). Luigi Bianco

Mario Lepore per la personale del 22 febbraio 1969 alla Galleria Pegaso di Milano

Il pittore Vincenzo La Mantea ordina la sua prima personale a Milano dove aveva allestito con successo e collettive cui ha partecipato non soltanto in Italia ma anche all’estero. Lamantea vive e lavora a Girifalco un paese che ha un araldico nome da antica venatoria, in provincia di Catanzaro. È un isolato in una regione purtroppo per tanti versi ancora isolata e depressa, poco nota alla maggioranza degli italiani, anche se bellissima e nobilissima per classiche elleniche tradizioni. Ma è singolare come questo artista non sia affatto “provinciale” anche se per usare una locuzione corrente “è tagliato fuori dal giro”, e come, alla resa dei conti risulti viceversa vivamente e originalmente inserito nella cultura attuale, sia partecipe con spontanea e irruenta capacità creativa di una visione pittorica e di concetti estetici pienamente moderni. È singolare, come dicevo prima, ma le vicende della sua vita lo spiegano esaurientemente. La sua è una storia molto romantica, che si presterebbe a fare di La Mantea quello che si suole dire giornalisticamente “un caso”. Qui però l’accenneremo asciuttamente solo per la comprensione del lettore.

Vincenzo La Mantea, che è nato nel 1928 fu costretto in giovanissima età ad emigrare negli Stati Uniti, a Nuova York, per trovare lavoro cominciò come apprendista sarto, ma proprio allora la sua latente vocazione per la pittura si manifestò con prepotenza. Il giovanottino cominciò a frequentare i musei della metropoli americana, specie il Guggenheim. Ebbe così sottocchio un mare di pittura, e poté studiarsi tutta l’arte del mondo: antica e moderna nelle più diverse espressioni. Al Guggenheim appunto si incontrò fortuitamente con due noti pittori Mark Tobby e Renato Birolli dei quali diventò amico. Non fu certo un contatto inutile soprattutto dal punto di vista delle idee, delle teorie attuali, ché La Mantea, temperamento schietto di autodidatta, non poteva stare nella scia di quei due, non poteva prenderli per maestri: doveva formarsi da sé un metodo di apprendimento, trovare provando e riprovando quel che gli conveniva e rispondeva al suo sentimento, alle sue possibilità creative e tecniche, al suo gusto. Insomma, doveva, di fronte agli orizzonti che gli si erano aperti e continuavano ad aprirglisi davanti, interrogare se stesso, marciare autonomamente. Intanto c’erano anche le difficoltà materiali che premevano e un ansia di esperienze anche sul piano umano con le quali bisognava fare i conti. Furono momenti duri: finì persino militare in Corea, combatté, visse una tragedia in una fetta di mondo che divampava.

Ma infine ecco che l’emigrante ritorna in patria: ha perduto le forbici e l’ago e ha trovato una tavolozza e dei pennelli e nel suo lungo e imprevedibile cammino.

La pittura di La Mantea ho potuto conoscerla in larga parte, almeno quella degli ultimi anni. So che ha avuto un periodo non figurativo ma saggi di qual momento non ne ho visti: ho visto piuttosto gli sviluppi successivi, di recupero dell’immagine. Probabilmente i dipinti esposti, essendo stati scelti da chi scrive con un concetto non antologico ma volendo presentare il pittore con una fisionomia unitaria rispetto ai tempi più recenti non lasciano conoscere diversi e interessati aspetti della sua passata ricerca che meriterebbero di essere apprezzati. Ma questa mostra ha dei limiti come spazio e cronologia. Suppongo però che senza alcun dubbio qui appaia un genuino artista, nativamente dotato, con una individualità notevole e una padronanza altrettanto notevole dei mezzi espressivi, un “piglio” franco e ardito nell’affrontare il motivo pittorico costantemente scelto sul vero e costantemente trasfigurato con foga in un fatto lirico e visionario.

La Mantea non mira a descrivere il brano di natura cui si ispira ma a esprimere la propria emozione davanti a esso nella maniera più immediata possibile. Perciò ha una pittura veloce, abbreviativa, che talvolta rasenta una sorta di stenografia, fatta di segni e accenni di colore. Il suo pennello si muove rapidissimo sulla superficie del supporto adottato – tela o cartone o legno che sia – tracciando una immagine che contiene solo l’essenziale del dato di natura da cui parte ed è caricata dello scatto fantastico e sentimentale suscitato dal tema nel pittore. Pure essendo in definitiva di provenienza impressionistica questo modo di dipingere diventa sostanzialmente espressionistico. L’elemento segnico vi ha gran parte, e anche quello gestuale. Ma non mai vanamente presi in sé, astrattamente, in senso non figurativo. Viceversa La Mantea vuole significare, vuole comunicare un contenuto capitato alle sorgenti della emozione, intrecciare il colloquio tanto con la natura quanto col riguardante. Il suo alfabeto, cioè il tracciato della pennellata, è estremamente vario e spesso persino capriccioso: arabeschi, ellissi, una sorta di “virgolato”, iterazioni di tocchi, di linee diritte e brevi, di chiazze cromatiche, sfocature e grumi entrano nel suo variato e intonato tessuto pittorico, sempre cantante nella cromia che si addensa e dirada a seconda delle esigenze. Può dare a volte la impressione di un tumultuante intreccio gratuitamente irregolare pur nel suo bel colore, con non pochi echi informali, ma a una lettura giusta, nella prospettiva giusta, tutto si ordina, si colloca esattamente: gli elementi del dipinto si rivelano di colpo e parlano eloquentemente. C’è in questa pittura di La Mantea qualcosa che ricorda De Pisis e qualcosa che ricorda Kokoschka, né resta ignorata tutta una serie di esperienze moderne e contemporanee. Ma i contributi appaiono assimilati perciò legittimante fatti propri e rifusi dall’artista in un linguaggio personale, efficace, genuino attraverso il quale l’immaginazione e lo slancio lirico dell’artista si palesano e creano significanti e fermentanti interpretazioni di quella realtà cui La Mantea si ispira, nuove, fresche, vitali. Mario Lepore

Rinaldo Commodaro. La Mantea: ammalato mentale olio su tela 50x70, 1980

Opera di sconvolgente bellezza e di intenso pathos sembra sintetizzare, nel suo spietato realismo, lievitato da un intimo mondo poetico, il travaglio di una innata creatività. I suggerimenti della scuola, da cui attinge a piene mani, appaiono condensati d’istinto in una rielaborazione che finisce col diventare prodotto superbamente autonomo e personale. La figura dell’AMMALATO MENTALE, imprigionata nella sua terrestrità, è fuori del tempo, stagliata in un’astrazione impietosa, irrigidita in una fissità senza meta, caratterizzata dalla consapevolezza di un’angoscia profonda che vi traspare, dall’assenza di qualsiasi azione e dalla incombenza di un progressivo sfacelo. La maggiore forza del LA MANTEA sta proprio in questo suo deciso scavare tra carni e sentimenti, in questo suo quasi spietato “veder dentro”, che sconcerta ed affascina. E tutto ciò l’artista ottiene con pochi tocchi essenziali, sparati con sicurezza impressionistica, con l’uso di pochi colori irreali, sofferti ai confini dell’allucinatorio, ma con maestria, con mano esperta, senza pentimento o un ripensamento. Pittori come lui fanno ben sperare nell’avvenire dell’arte. Rinaldo Commodaro

Giuseppe Guzzo su Calabria Letteraria Marzo-aprile 1978
L’originalità della pittura abbreviativa di Vincenzo La Mantea

In tempi in cui anche le arti si sono fatte assoggettare dal sistema del consumismo, dal progressivismo e dalle facili commercializzazioni, è sempre più raro incontrare pittori spontanei e genuini che si esprimono secondo le proprie inclinazioni. E’ certamente insolito, ma non impossibile. Vincenzo La Mantea di Girifalco rappresenta appunto una di queste rare eccezioni. Nato a Girifalco nel 1928, vi vive e vi lavora dal 1953 dopo aver percorso mezzo mondo. Nell’immediato dopoguerra neppure lì doveva esserci molto di cui campare se nel 1946 il giovane La Mantea è costretto a raggiungere il padre in America sullo stesso piroscafo che dall’Italia porta alla Wohn di New York uno sconosciuto Michele che in seguito ritornerà Mike Bongiorno dopo aver incontrato ben altre fortune. Mentre confeziona cappotti per i militari della Corea, quella Corea che nel 1950 avrà bisogno anche di lui, Vincenzo La Mantea frequenta i musei della metropoli americana venendo a contatto con l’arte di tutto il mondo. E’ appunto al Guggenheim che incontra i due noti pittori Mark Tobey e Renato Birolli dei quali diviene ben presto amico ed emulo. Amico resterà per sempre, emulo per poco. Temperamento indipendente, gli ha maestri fintanto che non troverà ciò che cercava, ciò che rappresentava la sua vera via e che rispondeva ai suoi gusti, ai suoi sentimenti. Sempre a New York, dove fra gli altri conosce De Kooning, studia all’Art Student’s League con George Grosz. Rientrato in Italia nel 1953 frequenta a Cortale lo studio di Andrea Cefaly e la Scuola Libera del Nudo con i prof.ri Salvadori e Moro presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera. Vive e lavora a Girifalco tra sette figli maschi, una nidiata di artisti: i maggiori hanno già tenuto concerti nel più grande tempio della lirica, il Teatro alla Scala di Milano.

Fin qui l’uomo che è tutt’uno con l’artista in cui non è difficile scorgere lo stesso travaglio. Dopo un periodo non figurativo, infatti, Vincenzo La Mantea recupera nei suoi quadri l’immagine nella quale si rivela l’artista genuino, per natura dotato, padrone dei mezzi espressivi sia che si impegni nell’infanzia, nella bellezza femminile, nei temi sacri o che corredi un paesaggio, una natura morta.

Quella di La Mantea, però, è un tipo di pittura tutta particolare e personale. E’ stata persino detta abbreviativa, stenografica non certo perché semplicistica, improvvisata o incompleta, ma perché è in quel modo che l’artista esprime la sua tensione interna, la sua emozione che vuole immediatamente comunicare a chi ammira le sue tele. Le sue immagini sono fatte sempre e solo dell’essenziale, sfuggono i particolari superflui ed inutili, hanno qualcosa che le avvicina allo stile di De Pisis, ma creano un’atmosfera sottile, impalpabile, velata, trasferente, eterea. Non a torto il La Mantea è stato pure detto un chiarista per quel suo modo di interpretare i personaggi, i paesaggi e tutti i suoi temi con leggerezza, con sfumature. I suoi soggetti danno impressione di essere passati attraverso un filtro di vetro che sfuma le tinte e i colori, mai forti, mai decisi, ma sempre delicatamente soffusi. E’ il filtro della delicatezza di un sentimento di purezza, di ingenuità, di originalità, quella stessa originalità alla quale il La Mantea, senza mai lasciarsi suggestionare dai facili successi, è voluto restare ostinatamente fedele.

I suoi quadri danno l’impressione di un flash che divampi istantaneamente per dare luminosità ai colori che, attraverso i temi, li rendono trasparenti. Un flash, però, fatto di arabeschi, di ellissi, di linee diritte, oblique, di lievissimi tocchi, capricciosamente intrecciati, ma sempre appena sfumati che danno al contenuto pittorico un’atmosfera appena percepita. Pittura, d’altra parte, non facile giacché anche chi ha dimestichezza con l’arte riesce a scoprire solo attraverso i mille rivoli che piovono, senza violenza, senza drammaticità nelle tele.

Si può certamente discutere quanto si vuole sulle peculiarità di questa scrittura pittorica, di questa arte più contro che con i tempi, ma è innegabile che Vincenzo La Mantea si realizza al di là degli schemi di moda perché ascolta solo la sua vena, si conforma solo al suo stile col rischio certamente di non divenire mai commercializzata dalla massa, ma con la certezza di essere apprezzata da chi di arte si intende. Giuseppe Guzzo

Edvige Vitaliano su Il Quotidiano di Catanzaro del 13 dicembre 2001

[...] In La Mantea: La natura riesce a pervadere l’opera anche quando essa non è il soggetto del quadro stesso. Nelle sue “nature morte”, ad esempio, la natura, che non è mai tentazione domenicale [...]. Edvige Vitaliano

Vito Fabio, Se l’arte merita applausi, su Calabria Ora, 12 marzo 2011.

Vincenzo La Mantea di Girifalco è un artista di grande spessore. Di lui si ricordano decine di mostre personali e di premi conseguiti nel corso di una carriera lunga 60 anni. Sessanta anni di carriera che lo hanno avvicinato ad esigenti intenditori e critici d’arte. Di più. La Mantea è stato prima a New York e poi a Milano accanto a maestri di alta levatura, quali George Grosz, Salvadori e Moro, oltre ad Andrea Cefaly Junior di cui fu suo allievo e il cui grande esempio umano, morale e artistico ha profondamente influito nella sua vita e nella sua arte. Ripercorriamo allora le tappe più significative di questi 60 anni dell’arte di La Mantea – personaggio schivo e riservato – con il nipote, l’artista Giuseppe De Filippo che di sicuro lo conosce meglio di chiunque altro perché gli è sempre rimasto vicino.

Cosa rappresenta per lei l’arte di Vincenzo La Mantea?

“E’ difficile se non impossibile contenere in una breve intervista il senso-valore di un operato artistico che dura da più di 60 anni, soprattutto se tale operato è un autentico messaggio di poesia che merita la più alta considerazione critico-artistica”.

E allora qual è l’aspetto saliente della sua opera?

“L’aspetto predominante della ricerca di La Mantea è la poetica della luce, grazie ad essa ha superato varie influenze, quella del suo maestro prediletto Cefaly e quelle subite durante il soggiorno statunitense che l’ha visto allievo di Grosz all’Art Student’s League di New York. Dell’espressionismo astratto ha sempre mantenuto il gesto veloce, espressivo ed emotivo”.

La Mantea visse in America per parecchi anni dove conobbe e apprese molto dell’arte d’oltreoceano, ma al suo rientro in Italia qualcosa cambiò?

“In Italia, La Mantea vivrà in contatto diretto con la natura, quella calabrese pregna di luce e dipingerà rigorosamente dal vero. Questo incessante contatto lo avvierà lentamente verso una nuova architettura pittorica fatta di segno e colore-luce non più di segno e gesto, di colore e materia secondo i dettami delle avanguardie artistiche: action painting ed espressionismo astratto, già per altro assimilati dal La Mantea. infatti, dopo l’esperienza informale degli anno ’60, La Mantea darà inizio a una serrata ricerca incentrata su luce e composizione. Guarderà ai grandi architetti della superficie come Piero della Francesca e Cézanne e ai maestri dell’atmosfera come Renoir, Monet e Sisley”.

Ma qual è la caratteristica peculiare di La Mantea?

“La cosa sorprendente è che La Mantea ricerca da sempre la sua luce ideale con estrema dedizione e paura reverenziale verso il modello, tanto da fare e rifare la stessa composizione dal vero, rinnovandola di continuo con la chiara e umile consapevolezza di non aver ancora raggiunto quella perfezione di luce e quella bellezza formale tanto attese. L’attesa si rinnova di giorno in giorno consegnandoci allo sguardo, opere di inaudito lirismo pittorico”.

La luce dunque, come ispiratrice della sua arte che rispecchia il suo modo d’essere?

“Un ideale di luce che tecnicamente possiamo spiegare come l’assoluta corrispondenza armonica tra le varie fonti naturali che colpiscono gli innumerevoli oggetti di cui La Mantea popola le composizioni in risposta alla sua paura del vuoto. Ne conseguono opere le cui pennellate ci sembrano delle tessere musive auree”.

La sua è pertanto una ricerca della perfezione continua?

“Mi viene spontaneo il rimando a un pensiero di Dionigi L’Areopagita: “Nessuna cosa è di per se perfetta, oppure assolutamente non bisognosa di perfezione, se non ciò che veramente è in sé perfetto ed anteriore ad ogni perfezione”. La Mantea ricerca la perfezione della luce intesa come ente fisico e spirituale che avvolgendo di se ogni cosa la trasforma in segno-valore”.

Ma tra le tante opere di La Mantea quel è quella che incarna meglio l’anima dell’artista La Mantea?

Un esempio per tutti è l’opera “Il Cristo della Croce” “Primo Girasole”, recensita a suo tempo dal teologo Carmelo Naselli autore di una monumentale storia della chiesa”. Vito Fabio

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